Il valore attribuito all’oro aveva origine da antiche dottrine confluite nella filosofia neoplatonica, la quale riconduceva all’Uno la molteplicità dell’universo, deducendone che tutti gli elementi risultassero composti della stessa sostanza aurea primordiale, identica in ognuno di essi ma presente in proporzioni diverse. Per riportarli alla loro purezza originaria appariva lecito variare tali proporzioni con l’intervento di un agente catalizzatore. Quell’etere, o quintessenza, era secondo gli alchimisti il composto principale della Pietra Filosofale, la cui maggiore o minore presenza era ciò che determinava appunto la varietà e le mutazioni della materia.
Il lapis philosophorum o “quintessenza” sarebbe risultato in particolare dalla sintesi di due polarità contrapposte, quali il mercurio, associato all’aspetto passivo e lunare dell’etere, e lo zolfo, associato al lato attivo e solare dello spirito.
Tutta la natura, secondo il platonismo, essendo vitalizzata dalle Idee, risultava intimamente popolata da energie e forze arcane, celate nell’oscurità della materia, che era compito del filosofo risvegliare. Il dualismo tra spirito e materia si rifletteva nella corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, tra l’officina esteriore e il laboratorio interiore, dando luogo ad un’analogia recondita tra la possibilità di un’evoluzione personale dell’alchimista, e la convinzione che tutti i metalli presenti nelle viscere della terra fossero destinati a ridiventare oro.