La storia d’Italia è zeppa di casi che meriterebbero di esser narrati da scrittori dalla penna forbita anziché da aridi cronisti. Tra i molti vi è la sorte dell’attuale Verbania. A Pallanza e ad Intra, ora fusi nel ridente comune del Lago Maggiore, nacquero Luigi Cadorna, Comandante Supremo dell’Esercito italiano nella Grande Guerra, e il suo più valente generale, Luigi Capello, comandante della II Armata.
Non bastasse, Capello presiedette il congresso di Roma che nel novembre 1921 segnò il passaggio del fascismo da movimento a partito nazionale e quattro anni dopo venne condannato a trent’anni di reclusione per attentato alla vita del Duce. Di Cadorna molto si è scritto nel Centenario della Prima guerra mondiale, scandito anche dalla ristampa delle sue opere fondamentali, La guerra alla fronte italiana e Caporetto.
Risponde Cadorna, curato da suo nipote, Carlo. Capello, invece, rimane in un cono d’ombra. Motivo in più per ricordarlo anche per memoria del 10 agosto 1916, quando comandò il vittorioso ingresso degli italiani in Gorizia. […]
Il 31 ottobre 1922 con i generali Gustavo Fara e Sante Ceccherini anche Capello sfilò in Roma dopo che il Re aveva incaricato Mussolini di formare il governo. Proprio alla vigilia della Marcia, la commissione senatoriale per la revisione delle risultanze della precedente Commissione d’inchiesta sulle responsabilità di Caporetto aveva concluso con un verdetto di piena riabilitazione tanto di Cadorna quanto di Capello.
Musssolini però ne vietò la pubblicazione per non riattizzare già aspre polemiche e per “tenere al guinzaglio” i vertici delle Forze Armate. Niente affatto compensato con una missione privata in Germania e da un compromettente “rimborso spese” di 5.000 lire concessogli dal generale Emilio De Bono, direttore generale della polizia, da quando il governo consentì e incoraggiò gli assalti squadristici alle logge Capello optò decisamente per la difesa della massoneria e ne capitanò l’opposizione al fascismo.
Il 5 novembre 1925 fu arrestato a Torino per pretesa connivenza col progettato, ma mai attuato, attentato alla vita di Mussolini imbastito dal socialista Tito Zaniboni (niente affatto massone, a differenza di quanto asserisce Fulvio Conti, senza produrre documenti), affiancato da Carlo Quaglia, ex militante del partito popolare e informatore della polizia. Processato, malgrado la mancanza di prove concludenti e la testimonianza a suo favore del gran maestro Domizio Torrigiani, appositamente rientrato dalla Francia e assegnato a cinque anni di confino di polizia, Capello fu condannato a trent’anni di carcere, uno dei quali in regime cellulare, tre di sorveglianza speciale e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Aveva quasi settant’anni… Ad alleviargli la solitudine furono due sacerdoti, il Cappellano del carcere di San Gimignano e, a Soriano sul Cimino, il padre Bernardino della Passione, uomini “di cuore e di spirito” che nelle lunghe conversazioni non toccarono mai argomenti che potessero suscitare disagio. Dal generale ingiustamente incarcerato non pretendevano alcuna “capitolazione”. Lasciavano che a giudicare fosse l’Altissimo o il Grande Architetto.